Riflessioni storiografiche attorno all’opera di Émile Durkheim “La Germania al di sopra di tutto” a cura di Mario A. Toscano (pagg. LXI + 104, euro 12,00) Nino Aragno Editore, Torino, 2015
di Ivan Buttignon, politologo
L’AUTORE
Émile Durkheim nasce nel 1858 ad Epinal, capoluogo del Dipartimento dei Vosgi, in Lorena, regione di confine particolarmente contesa. Pedagogista all’Università di Bordeaux (1887-1902) e poi alla Sorbona (1902-1917), fortemente votato alla sociologia, tanto da diventarne uno dei massimi esperti.
Durkheim riveste un ruolo certamente rilevante nella Francia della fine dell’Ottocento e del primo Novecento.
Partecipa a quel rinnovamento delle idee che contrassegna l’epoca repubblicana, con un atteggiamento fortemente razionalistico. Il nucleo del suo pensiero gravita attorno al concetto di solidarietà. Di lì le opere Divisione del lavoro sociale (1893), Regole del metodo sociologico (1895), Il Suicidio (1897) e Forme elementari della vita religiosa (1912).
L’OPERA
1. Le due previsioni
Terminato, o meglio interrotto, nel 1917 in coincidenza della morte del suo autore, La Germania al di sopra di tutto esce nel febbraio del 2015 in una veste inedita arricchita da una sostanziosa (ben 61 pagine) e sostanziale introduzione di Mario Aldo Toscano, cui è affidata pure la curatela, per i tipi della Aragno.
I 98 anni di scarto tra la stesura e quest’ultima edizione non devono stupire, per almeno due motivi. Il primo: l’opera tratta direttamente della Grande Guerra e, nei modi che vedremo, del suo seguito più atroce e crudele: la Seconda guerra mondiale. La decorrenza del 2015 appare quindi perfetta. Rispettivamente centenario della scesa in campo dell’Italia nel Primo conflitto mondiale e settantesimo del Secondo. Conto tondo in entrambi i casi.
L’altro motivo: le ombre che stanno oscurando l’Unione Europea e per diversi aspetti tutto il mondo odierno trovano una precisa collocazione nelle analisi prodotte da un Èmile Durkheim tutto teso ad osservare la Grande Guerra in corso e a legittimarla tanto storicamente quanto sociologicamente. Proprio così: scrutando il suo (ultimo) tempo, il Sociologo legge e interpreta quanto accadrà nel futuro.
Posto che il termine “preveggenza” non sia ascrivibile all’enciclopedia storica e storiografica, diventa necessario ripiegare sul lemma “previsione”. Perché Durkheim, prima di prevedere gli anni Dieci del Terzo millennio, anticipa come dicevamo alcuni aspetti della Seconda guerra mondiale, a partire dalla involuzione sociologica cui sono sottoposti i soldati tedeschi.
Per il sociologo francese il problema dell’ordine, di che cosa tiene insieme la società, assurge a problema centrale della sociologia .
Ecco allora una delle prime osservazioni di Durkheim sulla Grande Guerra: perché i tedeschi, ancor prima di penetrare il suolo francese, si distinguono per ferocia e barbarie?
La risposta riposa nel titolo del primo paragrafo e suona precisamente così: “La condotta della Germania durante la guerra deriva da una certa disposizione mentale” .
A leggere Durkheim, parrebbe proprio si tratti della stessa disposizione mentale che più tardi porterà ad appendere alle pareti dei soggiorni delle famiglie tedesche il celebre ritratto di Hitler del fotografo Heinrich Hoffmann e che di lì a poco assumerà i tratti diabolici dei campi di sterminio e della “Soluzione finale”.
2. Il sistema mentale tedesco tra falcidie e guerra lunga
Secondo Durkheim, l’incedere barbaro e bestiale dei militari tedeschi deriva da un tratto eminentemente culturale già illustrato da uno studioso tedesco nelle sue opere, a partire da quella intitolata Politik. Si tratta di Enrico von Treitschke, che per primo e meglio di altri ha spiegato il complesso di idee condivise e praticate che comporrebbero il “sistema mentale” tedesco. Sistema che, secondo il Sociologo, si forma specialmente in previsione alla guerra, mentre tende ad occultarsi “durante la pace, nel profondo delle coscienze” .
Sebbene Durkheim citi espressamente la violazione della neutralità del Belgio e delle convenzioni dell’Aja nel corso della Grande Guerra, tutte occasioni in cui i militari tedeschi sfogano il loro barbaro impeto distruttivo, la descrizione delle violenze si addicono maggiormente alla Seconda guerra mondiale.
L’Autore con fare inquieto e severo, dall’alto del suo atteggiamento razionalistico che recupera la lezione positivista depurandola dai dogmatismi, cerca il motivo di tanta barbarie. Problematizza quindi la violenza germanica ponendo un quesito basilare: com’è possibile che “quegli uomini che frequentavamo, che stimavamo, che appartenevano insomma alla stessa comunità morale alla quale apparteniamo noi, siano potuti diventare i barbari aggressivi e spregiudicati che oggi ognuno denunzia all’indignazione pubblica?” .
Durkheim teme che la Germania, sempre in virtù della sua “disposizione mentale” intesa come tratto culturale, compia altri e più immani lutti prima di una sua ulteriore e tragica espansione. Come efficacemente spiega il curatore Mario Aldo Toscano nella sua introduzione, ancora una volta l’Autore “ha avuto ragione soprattutto a posteriori. Con la Seconda guerra mondiale e il nazismo”.
Quasi che, tanto per azzardare un parallelo, i libri che trattano degli orrori del fascismo fossero stati scritti precedentemente alla costituzione dei Fasci Italiani di Combattimento del 23 marzo 1919.
3. La sovranità statale come causa della Grande Guerra e del collasso dell’UE
Passiamo ora alla seconda formidabile intuizione di Durkheim: il nazionalismo insito nella stessa natura dello Stato.
Tanto chiaro appare il titolo del capitolo che tratta della questione, “Lo Stato al di sopra delle leggi internazionali”, quanto provvidenziale figura il titolo del primo paragrafo “I trattati internazionali non obbligano lo Stato. Apologia della guerra”. In questa sezione l’Autore intreccia sapientemente l’intuizione logica con un deciso senso critico accompagnato da una profonda conoscenza del diritto internazionale.
Come può, chiede (ma in realtà spiega) Durkheim, uno Stato sottoporsi alle leggi internazionali quando la sua sovranità, per definizione, non riconosce altro potere simile che gli sia superiore e da cui esso dipenda? Quindi osserva, “Mentre nei contratti tra privati è immanente una forza morale che domina la volontà dei contraenti, i contratti internazionali non possono avere quest’autorità, perché non c’è nulla che sia sopra la volontà d’uno Stato. […] A maggior ragione, uno Stato non potrebbe accettare la giurisdizione di un tribunale internazionale, qualunque fosse la sua costituzione. Sottostare alla sentenza d’un giudice equivarrebbe a mettersi in una condizione di dipendenza, inconciliabile con l’idea della sovranità”.
Proprio quest’ultimo concetto, la sovranità, diventa il principale ostacolo a qualunque arbitrato, inducendo così lo Stato a risolvere con le proprie forze le questioni che ritiene essere per sé rischiose o anche solo importanti.
Semplificando ma non troppo, sovranità e guerra rappresentano un binomio inscindibile. A ciò Durkheim aggiunge una ulteriore riflessione, svelando che la guerra “è la condizione necessaria all’esistenza degli Stati; e l’umanità senza lo Stato non può vivere”.
Pertanto, l’uomo necessita dello Stato che, fondando la sua ragion d’essere sulla sovranità, non può che muovere guerra quando lo ritiene: “Se uno stato non è in grado di sguainare la spada quando gli pare, non è più degno del suo nome”.
La guerra in corso, spiega ancora l’Autore, contrariamente alle aspettative avrà un decorso certamente lungo e brutale.
Specularmente, pare suggerire Durkheim, è possibile garantire la pace attraverso la cessione della sovranità (o al limite di una sua quota) a un’organizzazione sovranazionale.
È quanto si cercherà di fare in risposta al Secondo conflitto mondiale attraverso l’istituzione dell’ONU, della NATO e dell’UE. Tutti tentativi parziali che, in quanto tali, non hanno garantito né garantiscono tutt’oggi, quell’assopimento in via definitiva dei conflitti generati dagli Stati sovrani sino alla loro degenerazione in scontri bellici.
Le disamine di Durkheim, per quanto concentrate sui fatti del suo tempo, sembrano attagliarsi meglio a contingenze, come abbiamo visto, successive e addirittura attuali.
Forti del loro potere predittivo, le osservazioni dell’Autore tendono, più che considerare singoli episodi storici nel loro valore eminentemente ontologico, a rilevare e rivelare le cosiddette “tendenze storiche”, i trend.
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