Next generation Europe e Recovery Fund: a cosa servono

Next generation Europe e Recovery Fund: a cosa servono
28 Settembre 2020 accademia

L’idea è stata quella di alcuni Capi di Stato, per così dire più “illuminati”. Ci riferiamo alla Merkel e a Macron e a pochi altri. Vincendo egoismi e rigidità nazionali e profittando dell’uscita dall’UE del grande oppositore di ogni ipotesi di più forte unificazione europea, ovvero la Gran Bretagna, i due hanno inaspettatamente dato il via libera a un piano di ripresa, non solo economica, del nostro continente. Se ne sentiva un bisogno quasi impellente perché, ancor prima dello scoppio della pandemia, l’UE era già ad un passo dall’implosione per le sue molte e spinose contraddizioni interne. Col drammatico propagarsi del virus, dopo non pochi tentennamenti e iniziali incertezze, a Bruxelles ci si è resi conto che era indispensabile una reazione, proporre qualcosa che gli Stati membri, singolarmente presi, non sarebbero stati in grado di fare. Occorreva soprattutto pensare non solo all’immediato, ma anche al futuro: da qui l’invenzione del nome della nuova, inedita azione, adottando la terminologia inglese (purtroppo dominante nel mondo): “Next Generation Europe”.

Da qui il conseguente piano di finanziamento che si chiama “Recovery”, termine inglese che sta per “Ripresa” o, anche, “Recupero”. Si tratta, in estrema sintesi, di una riedizione di quella che un tempo si chiamava “programmazione economica” molto diffusa negli anni Settanta del secolo scorso. Programmare significa prevedere e far qualcosa per il futuro, soprattutto a debito. Le linee generali di questo programma, che non è detto i vari governi europei siano del tutto in grado di accettare ed eseguire, sono state approvate dal Consiglio Europeo nell’estate del 2020. L’intento sottoscritto e dichiarato è quello, assai nobile in linea di principio, di rafforzare la “coesione interna”, cioè di evitare disparità economiche, sociali e sanitarie che peraltro già esistono tra i vari Stati membri e persino all’interno di essi, come nel caso italiano. Come rimediare a questo se non con stanziamenti di denari a piene mani? Così, finiti i tempi dell’austerità e dei “conti in ordine” per tutti, spinti dall’emergenza pandemica, siamo rapidamente passati a quelli dell’indebitamento generale, con la benedizione di Mario Draghi.

Un cambio di paradigma che sembrava impensabile e improponibile solo un anno fa, ma che nel 2020 è apparso giustificato dalle conseguenze non solo sanitarie della crisi. L’intento dell’azione europea, se andrà a buon fine (e il condizionale è d’obbligo se non si vuol fare della retorica), non dovrebbe essere solo quello del miglioramento e del potenziamento del settore sanitario, ma anche, più a lungo termine, quello di poter imprimere una certa direzione verso un nuovo modello di sviluppo. Quel modello che oggi molti definiscono “sostenibile”. Si tratta della riconversione ambientale, dell’innovazione digitale e della sostenibilità sociale. Questi i capisaldi del “Next generation Europe”. Per rendere concreto questo piano si prevedono finanziamenti consistenti attraverso un “Recovery fund”, cioè non un prestito ma un fondo pubblico europeo al quale possano attingere, a certe condizioni, gli Stati membri. A questo strumento è da aggiungere anche un rinnovato MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) espressamente fruibile per finanziare il settore sanitario. Su questo MES è in atto, da molti mesi e soltanto in Italia, una assurda quanto inutile diatriba tra partiti politici nazionali. Al di là di questo, non si può negare che l’UE abbia battuto un colpo e sia ora in grado di offrire ai governi dei suoi 26 Stati membri l’opportunità di riprendersi dalla non lieve crisi pandemica. Di più: nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione davanti al Parlamento europeo, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha meglio delineato gli assi portanti del Next Generation Europe.

Al centro del rilancio europeo devono risultare, secondo il discorso della von der Leyen, l’ambiente, la digitalizzazione, la maggior integrazione tra i diversi sistemi sanitari ed infine il ruolo dell’Europa nel mondo. Sono obiettivi largamente condivisibili, ma non privi di ostacoli per la loro completa realizzazione. Sono ostacoli che riguardano tempi e modi della procedura. Il successo o l’insuccesso finale dipenderà dalla buona o cattiva volontà dei vari governi degli Stati membri, non dalle istituzioni europee. Per quel che riguarda i tempi, se tutto va bene non si potrà disporre dei finanziamenti prima della fine del 2021, anche in base a quel che stabiliranno i “piani d’azione” predisposti dalla Commissione Europea. Per quel che attiene ai modi, gli impieghi finanziari, essi dipenderanno in larga misura dal grado di efficienza del Paese membro che li richiederà. Appare piuttosto imbarazzante la situazione italiana, nonostante che due italiani occupino posti di rilievo a Bruxelles (Paolo Gentiloni e David Sassoli) e che l’Italia sia uno dei maggiori beneficiari del Recovery Fund. Imbarazzante perché, fino ad oggi, il livello del dibattito pubblico su questi piani europei è apparso piuttosto arretrato, inadeguato di fronte ai grandi cambiamenti in atto e alla profonda crisi interna italiana.

Colpisce la tendenza che del “Recovery fund” si parli talvolta irresponsabilmente come di un tesoretto, di un gruzzolo o di una montagna di soldi in cui tuffarsi come piace a Paperon de’ Paperoni: un atteggiamento, questo, che non giova alla credibilità e all’immagine del Paese. Sarebbe invece da comprendere – e comprendere subito – che questo programma europeo potrebbe costituire una preziosa e forse irripetibile opportunità per il superamento dei mali storici dell’Italia, ad iniziare dalla sua burocrazia centralista e inefficiente. Insomma, se finanziamenti ci saranno, sarà urgente porre mano a una profonda riforma non solo amministrativa ma del modo politico di agire, pensando al futuro: altrimenti si perderà tutto in mille inutili rivoli, tanto per accontentare questa o quella categoria e tante ingiuste rendite di posizione. La posta in gioco è dunque alta come ben dice anche l’economista Emanuele Felice (“Una nuova politica economica”, in Domani, 22.09.2020): “…l’Italia declina ormai da più di vent’anni, per incapacità di fare innovazione e politica industriale, per il mal funzionamento della burocrazia e per le sue disuguaglianze che bloccano la società. Ora c’è un’occasione forse irripetibile per rompere i ceppi del declino. Ma bisogna avere il coraggio di pensare il domani…come sta avvenendo in Europa”.

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